L’esposizione come Intensità della luce o E.V. in fotografia la luce può essere misurata in molti modi (watt, candele, lumen, lux), ma in fotografia, l'unità più
conosciuta sono gli E.V.
E.V. è la sigla delle parole inglesi Esposition Value (Valore d'esposizione) ed hanno la caratteristica di
permettere l'immediata conversione in una coppia di valori diaframma/tempo.
Maggiore è il numero degli E.V. e maggiore è l'intensità luminosa che raggiunge il sensore.
Gli E.V. sono calcolati in modo tale che quando la luce varia di un E.V. per compensare basta spostarsi di un tempo (o di un diaframma). Per essere più espliciti se la luce aumenta di un E.V. significa che per far giungere la corretta intensità luminosa al sensore basta chiudere un diaframma, oppure di un tempo; viceversa se la luce cala di un E.V. basta aprire di un diaframma oppure scendere o salire di un tempo.
Occorre ricordare che il tempo ed il diaframma non cambiano solo in base all'intensità della luce ma anche in base alla sensibilità impostata sulla macchina. Ne deriva che la conversione tra E.V. e la coppia di valori tempo/diaframma viene riferita solo ad una data sensibilità. Normalmente si fa riferimento ad una sensibilità di 100 ISO, ASA ed un raddoppio o ad una diminuzione si aumenta o dimezza la sensibilità, i DIN hanno un andamento logaritimico e ad un aumento o diminuzione di tre valori corrisponde una variazione di uno stop di sensibilità.
Lo standard ISO 5800:1987 che definisce due scale una lineare e una logaritmica per misurare la velocità delle pellicole. La scala lineare corrisponde alla scala ASA oggi non più usata, mentre la seconda corrisponde alla scala DIN, anch'essa non più usata. Precedentemente le pellicole lente tendevano ad avere una grana più fine.
Una grana evidente può avere una valenza artistica, ma i fotografi preferiscono foto a grana fine, il che li porta a prediligere pellicole lente. Naturalmente, ad una pellicola lenta con esposizione lunghe corrispondono anche maggiori rischi di mosso o micromosso. Nei sistemi fotografici digitali utilizziamo gli ISO ed è possibile variare il guadagno elettronico del sensore al fine di avere un diverso rapporto fra l'esposizione alla luce e la luminosità definitiva dell'immagine risultante. Questo guadagno non è direttamente proporzionale alla sensibilità del sensore, il calcolo è più complicato. Su una fotocamera, comunque, impostare una sensibilità ISO e l'esposizione di conseguenza, sia automaticamente che manualmente con l'aiuto di un esposimetro, farà risultare una foto correttamente esposta come le fotocamere a pellicola.
Nel mondo della fotografia digitale è stato definito lo standard ISO 12232:2006, che disciplina le sensibilità del sensore. Nel caso che si usi un numero di ISO maggiore si potranno usare diaframmi più chiusi (o tempi più brevi) e viceversa. Aumentando il tempo, l'immagine appare mossa, ma chiudendo anche il diaframma, la luce che ha sensibilizzato il sensore è la stessa e il soggetto appare della stessa luminosità. Per convenzione si definisce l'EV come un logaritmo in base 2: dove A è l'apertura del diaframma e T il tempo di esposizione. Quindi, a combinazioni diverse di tempo e apertura, corrispondono uguali valori EV. Ad esempio, f5.6 e 1/60 equivale a f8 e 1/30. Al valore EV 0, corrisponde la coppia: apertura f/1.0 e tempo 1 secondo. Sapendo che ogni successivo valore di apertura dimezza l'intensità luminosa, per ottenere lo stesso valore EV 0 con una apertura di f/1.4, dobbiamo raddoppiare il tempo portandolo a 2 secondi. Il valore EV è sempre riferito a una sensibilità convenzionale di 100 ISO. Ad esempio, se passo da 100 ISO a 200 ISO dovrò dimezzare il tempo di esposizione o l'apertura del diaframma, "chiudere di uno stop". In fotografia, il termine esposizione indica il tempo durante il quale l'elemento sensibile sensore elettronico, resta esposto alla luce che passa attraverso il sistema ottico l’obbiettivo ed è determinata con l'ausilio dell'esposimetro. L'esposizione è definita come: esposizione = intensità luminosa × tempo e pertanto dipende dalla combinazione tra le impostazioni del diaframma, che regola l'intensità luminosa, e del tempo di esposizione. In particolare, fissata una data esposizione, diaframma e tempo sono inversamente proporzionali, ossia sono l'uno il reciproco dell'altro. La relazione che intercorre tra questi due elementi è definita quindi come reciprocità.
A parità di condizioni di luce, si ottiene la stessa esposizione se aumentando un termine se ne diminuisce un altro dello stesso fattore. Ne consegue che, moltiplicando uno dei tre parametri (diaframma, tempo, sensibilità) per un dato fattore, basterà dividere uno degli altri due per lo stesso fattore per ottenere un'immagine esposta allo stesso modo. ISO 100-f/8-1/30 ISO 100-f/4-1/125 ISO 100-f/11-1/15 ISO 200-f/8-1/60 ISO 200-f/11-1/30 ISO 200-f/4-1/250 Questa caratteristica permette un controllo, voluto sul risultato fotografico. Infatti, l'uso di una o dell'altra terna, pur garantendo la stessa esposizione equivalente, interferisce con altri aspetti quali la profondità di campo, un effetto mosso, ma siamo oltre: ricordiamoci che all'aumentare dell'apertura del diaframma diminuisce la profondità di campo della foto, mentre all'aumentare dei tempi di esposizione aumenta il rischio dell'effetto mosso, e all'aumentare della sensibilità, aumenta la granularità dell'immagine ,per l’effetto della grana o rumore elettronico nel caso del sensore . Fin dall’ origine della fotografia, l'esposizione fu l'elemento fondamentale per ottenere un fotogramma ottimale in ogni singola condizione luminosa. Un tempo era necessario fotografare con esposizioni molto lunghe, poiché il materiale su cui veniva impressa la fotografia era poco sensibile e quindi doveva rimanere per ore alla luce per assumere un aspetto simile alla realtà.
Nella prima fotografia della storia, Joseph Nicéphore Niépce dovette esporre un foglio di carta imbevuto di cloruro d'argento per circa 8 ore prima di ottenere un'immagine abbastanza luminosa e nitida. Con il tempo il materiale fotografico divenne sempre più sensibile, fino ad arrivare alle classiche pellicole dopo i sensori che hanno raggiunto livelli per la pellicola impensabili . Un altro accenno lo rivolgiamo allo strumento che viene utilizzato per misurare la luce che è l'esposimetro, che può essere esterno o interno. Un esposimetro può essere a luce riflessa, misurando così la luce che effettivamente proviene dal soggetto, oppure a luce incidente, che viene posto in prossimità del soggetto e ne misura l'illuminazione. Un esposimetro a luce riflessa ha a disposizione lo stesso tipo di informazione che arriva al sensore, e fornisce così una misura direttamente utilizzabile. Per contro, se il suo angolo (campo) non è molto ristretto, non è possibile determinare se tale illuminazione proviene dal soggetto, oppure è prevalentemente luce ambientale, per esempio il cielo o uno sfondo molto chiaro. Nel caso dell'esposimetro a luce incidente, invece, si ha una misurazione molto più precisa: l'esposimetro si trova esattamente nel punto di interesse. Tuttavia, soggetti diversi rispondono alla stessa illuminazione in modi molto differenti . Naturalmente l'esposimetro interno alle macchine fotografiche può essere solo del tipo a luce riflessa, perché non può essere posizionato in corrispondenza del soggetto. L'esposimetro misura la luce su una scala calibrata in valori di esposizione, già pronti, senza necessità di alcuna conversione, per essere utilizzati nelle formule per il calcolo di diaframma e tempo. Gli attuali esposimetri interni hanno permesso di limitare l'intervento umano utilizzando più sensori all'interno della fotocamera. La misura dell'esposizione può essere, ancora oggi, fatta con modalità esposimetriche tradizionali: misura in un punto centrale (spot) o in un'area centrale (pesata centrale) dell'immagine. Sono però disponibili anche modalità intelligenti, che misurano una matrice di più punti, determinando la natura della scena inquadrata e di conseguenza l'esposizione più appropriata. Le fotocamere elettroniche o digitali utilizzano dei programmi (vari-program) che, una volta calcolata l'esposizione corretta, scelgono la coppia tempo/diaframma più adeguata per la scena inquadrata.
Per convenzione, il calcolo dell'esposizione (il valore letto sull'esposimetro) viene fatto in modo tale che la zona di riferimento, per esempio il centro nella modalità spot, sia reso con un livello luminoso intermedio. Tale valore è quello del grigio 18%, cioè quello di una superficie con riflettenza pari al 18%. Esistono in commercio appositi cartoncini che presentano tale livello convenzionale di riferimento. Il valore esposimetrico misurato, per questo motivo, è da intendersi come un punto di partenza su cui effettuare le proprie scelte, più che come una prescrizione.
A queste considerazioni fanno eccezione i metodi a matrice o multizona, che applicano criteri basati sull'analisi di casi reali per cercare di determinare l'esposizione più corretta. Ma qual’è il motivo per il quale la scala del rapporto focale usa come misura dei numeri che a prima vista potrebbero sembrare “strani”. Si tratta della serie di potenze di radice quadrata di 2 . Se si utilizza una fotocamera dotata delle modalità manuali (P/A/S/M) noteremo che i numeri come f/5,6 o f/8. Variano al variare dell’inquadratura. Abbiamo preso in considerazione il caso di obiettivi a focale fissa, 50 mm f 1,4 ma le indicazioni stampate sugli zoom ci forniscono altri numeri come 18-35mm f/3,5-4,5 e ci informano che l’apertura massima con l’obiettivo a 18mm è f/3,5, cioè 5,1mm, mentre a 35mm arriva a f/4,5 e quindi 7,7mm. L’apertura massima nel secondo caso è lievemente più grande, ma il rapporto focale sembra più piccolo proprio per via della lunghezza focale, lo notiamo se guardiamo l’obiettivo della macchina al variare del rapporto della focale, a focali maggiori lenti frontali maggiori. In fotografia il numero f di stop indica l'apertura del diaframma, ed e' espresso come frazione: f/1, f/1.4, f/2, f/2.8, f/4, f/5.6 etc... Di conseguenza avanzando con gli stop il diametro del diaframma diminuisce sempre di più, pertanto un obiettivo con f/2.8 farà passare più luce (sarà quindi più luminoso) di un f/8. Ma quanto varia effettivamente la luce in ingresso in funzione del numero di stop? Lo vediamo subito, i calcoli sono abbastanza semplici, se siete curiosi. Diaframma a 8 lame su un obiettivo da 50mm Cominciamo con il dire che il diaframma è formato da una serie di lame che si aprono o si chiudono a seconda del numero di stop che impostiamo, la sua forma pertanto sarà ottagonale, possiamo approssimarla tranquillamente ad un cerchio e tanto più si avvicina meglio è. Sappiamo che l'area di un cerchio è pari a: Area Cerchio = ? * r^2 E dalle equazioni dell'ottica sappiamo che: f/ - N = f / D il Numero di stop è uguale alla lunghezza focale fratto il Diametro del diaframma. A questo punto non abbiamo bisogno d'altro per calcolare quanta luce entra sul sensore al variare del numero di stop, quindi procediamo con i nostri conti e otteniamo il raggio del diaframma dall'ultima formula: N = f / D -> D = f / N, essendo D il diametro, sappiamo che r = f / 2N Sostituiamo questa espressione a quella dell'area del cerchio ed otteniamo: Area Cerchio = ? * (f / 2N)^2 Calcoliamo ora qual'e' la sequenza che c'e' dietro al numero di stop, per farlo sarà sufficiente dividere un numero di f per il suo precedente: 1.4 / 1 -> 1.4 2 / 1.4 -> 1.42 4 / 2.8 -> 1.42 5.6 / 4 -> 1.4 8 / 5.6 -> 1.42 Facciamo una media dei valori ottenuti ed abbiamo: 1.41 che altro non e' che la radice di 2: 2^0.5, perciò possiamo dire che la progressione degli stop varia di un fattore prossimo alla sequenza geometrica delle potenze di due: 2^0.5, 2^(2*0.5), 2^(3*0.5), perciò:N/(N-1) ~= 2^0.5 dove N+1 e' uguale a 2^(x+1*0.5) L'ultima espressione significa solo che N non varia come i numeri naturali: 1, 2, 3 etc... Ma varia secondo la sequenza geometrica vista poco sopra: 2^0.5, 2^(2*0.5), 2^(3*0.5)... Quindi riutilizzando la formula dell'area possiamo sapere esattamente quanta sia la variazione di luce che entra tra uno stop ed il successivo, facciamolo numericamente e calcoliamo su un obiettivo da 50mm l'area del diaframma quando e' rispettivamente a f/2.8, f/4 e f/5.6, il risultato sarà uguale: Area(f/2.8) = ? * (50/2*2.8)^2 = 250 mmq Area(f/4) = ? * (50/2*4)^2 = 123 mmq Area(f/5.6) = ? * (50/2*5.6)^2 = 63 mmq Il diaframma in fotografia, è un'apertura solitamente tendente al circolare normalmente poligonale, incorporata nel barilotto dell'obiettivo, che ha il compito di controllare la quantità di luce che raggiunge i sensori di una fotocamera per il tempo in cui l'otturatore resta aperto il tempo di esposizione. Il centro del diaframma coincide con l'asse ottico della lente. Insieme al tempo di esposizione, l'apertura del diaframma determina la quantità di luce che viene fatta transitare attraverso l'obiettivo, che va quindi a impressionare i sensori. La maggior parte delle fotocamere dispone di un diaframma di ampiezza regolabile (simile, per funzione, all'iride dell'occhio) contenuto nell'obiettivo; la regolazione del diaframma si chiama apertura. A piena apertura il diaframma lascia passare, in un dato tempo, quanta più luce possibile verso il supporto sensibile; chiudendo il diaframma si riduce tale quantità di luce.
Nelle fotocamere, il diaframma può essere regolato su diverse aperture, distribuite regolarmente su una scala di intervalli detti numeri f (f/numero) o f/stop o aperture diaframma o divisioni di diaframma o più semplicemente diaframmi. La sequenza dei valori di numeri f è una progressione geometrica di ragione (circa 1,4) standardizzata al congresso di Liegi nel 1905, che comprende i seguenti valori: f/1 f/1,4 f/2 f/2,8 f/4 f/5,6 f/8 f/11 f/16 f/22 f/32 f/45 f/64 L'intervallo tra i diversi valori del diaframma viene comunemente indicato in gergo stop. I numeri f sono calcolati e ordinati in modo tale che diaframmando, cioè chiudendo il diaframma di un'intera divisione o di 1 stop, si dimezza la quantità di luce che entra per impressionare i sensori; chiudendolo di 2 stop si diminuisce la luce a 1/4, chiudendolo di 3 divisioni a 1/8 e così via. I numeri f esprimono il rapporto focale, cioè il rapporto tra la lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro dell'apertura del diaframma. Pertanto a valori più bassi di f corrispondono aperture di diaframma più ampie. Ad esempio, con un obiettivo di 50 mm, un'apertura del diaframma di 25 mm corrisponde a f/2 mentre un'apertura di 3,125 mm a f/16. In questo senso f è chiamato anche "apertura relativa", nel senso che il valore f dell'apertura è normalizzato rispetto alla lunghezza focale, ed esprime l'intensità di luce lasciata passare dal diaframma, utile ai fini del calcolo dell'esposizione. Infatti la stessa apertura relativa per esempio f/4 corrisponde a due aperture assolute diverse in un obiettivo di lunghezza focale 50mm (apertura assoluta a f/4 = 50/4=12,5 mm) e in un teleobiettivo 300mm (apertura assoluta a f/4 = 300/4=75 mm); però corrisponde alla stessa intensità di luce che l'obiettivo lascia passare verso il sensore. A parità degli altri parametri (obiettivo, formato, ecc) la profondità di campo è fortemente influenzata dall'apertura del diaframma: se questo è completamente aperto essa assume il minimo valore, viceversa diminuendo l'apertura (l'operazione è detta diaframmare) si aumenta la profondità di campo, che raggiunge il massimo quando il diaframma è portato all'apertura minima.
Diaframmi più chiusi hanno anche l'effetto di ridurre gli effetti di aberrazione ottica. Diaframmi molto chiusi provocano un peggioramento dell'immagine, dovuto alla diffrazione dei raggi luminosi per opera dei bordi del diaframma. Questi raggi diffratti dai bordi sono sempre presenti, ma il loro effetto sulla qualità dell'immagine diventa rilevante solo a diaframma chiuso. In fotografia, i primi diaframmi introducevano delle deformazioni nell'immagine dette a barilotto o a cuscinetto. I diaframmi altro non erano che tappi forati al centro, posti davanti oppure dietro all'ottica.
Oggi quello utilizzato è quello detto «a iride»: è formato da un numero variabile di lamelle , da 4 in su fino a 9, sagomate in maniera opportuna. Le lamelle sono imperniate in una ghiera rotante azionabile dall'esterno che, scorrendo, fanno variare in maniera continua la dimensione del foro. La sagoma del foro è dovuta alla forma delle lamelle e si avvicina al cerchio quanto più il loro numero è alto.
Gli E.V. sono calcolati in modo tale che quando la luce varia di un E.V. per compensare basta spostarsi di un tempo (o di un diaframma). Per essere più espliciti se la luce aumenta di un E.V. significa che per far giungere la corretta intensità luminosa al sensore basta chiudere un diaframma, oppure di un tempo; viceversa se la luce cala di un E.V. basta aprire di un diaframma oppure scendere o salire di un tempo.
Occorre ricordare che il tempo ed il diaframma non cambiano solo in base all'intensità della luce ma anche in base alla sensibilità impostata sulla macchina. Ne deriva che la conversione tra E.V. e la coppia di valori tempo/diaframma viene riferita solo ad una data sensibilità. Normalmente si fa riferimento ad una sensibilità di 100 ISO, ASA ed un raddoppio o ad una diminuzione si aumenta o dimezza la sensibilità, i DIN hanno un andamento logaritimico e ad un aumento o diminuzione di tre valori corrisponde una variazione di uno stop di sensibilità.
Lo standard ISO 5800:1987 che definisce due scale una lineare e una logaritmica per misurare la velocità delle pellicole. La scala lineare corrisponde alla scala ASA oggi non più usata, mentre la seconda corrisponde alla scala DIN, anch'essa non più usata. Precedentemente le pellicole lente tendevano ad avere una grana più fine.
Una grana evidente può avere una valenza artistica, ma i fotografi preferiscono foto a grana fine, il che li porta a prediligere pellicole lente. Naturalmente, ad una pellicola lenta con esposizione lunghe corrispondono anche maggiori rischi di mosso o micromosso. Nei sistemi fotografici digitali utilizziamo gli ISO ed è possibile variare il guadagno elettronico del sensore al fine di avere un diverso rapporto fra l'esposizione alla luce e la luminosità definitiva dell'immagine risultante. Questo guadagno non è direttamente proporzionale alla sensibilità del sensore, il calcolo è più complicato. Su una fotocamera, comunque, impostare una sensibilità ISO e l'esposizione di conseguenza, sia automaticamente che manualmente con l'aiuto di un esposimetro, farà risultare una foto correttamente esposta come le fotocamere a pellicola.
Nel mondo della fotografia digitale è stato definito lo standard ISO 12232:2006, che disciplina le sensibilità del sensore. Nel caso che si usi un numero di ISO maggiore si potranno usare diaframmi più chiusi (o tempi più brevi) e viceversa. Aumentando il tempo, l'immagine appare mossa, ma chiudendo anche il diaframma, la luce che ha sensibilizzato il sensore è la stessa e il soggetto appare della stessa luminosità. Per convenzione si definisce l'EV come un logaritmo in base 2: dove A è l'apertura del diaframma e T il tempo di esposizione. Quindi, a combinazioni diverse di tempo e apertura, corrispondono uguali valori EV. Ad esempio, f5.6 e 1/60 equivale a f8 e 1/30. Al valore EV 0, corrisponde la coppia: apertura f/1.0 e tempo 1 secondo. Sapendo che ogni successivo valore di apertura dimezza l'intensità luminosa, per ottenere lo stesso valore EV 0 con una apertura di f/1.4, dobbiamo raddoppiare il tempo portandolo a 2 secondi. Il valore EV è sempre riferito a una sensibilità convenzionale di 100 ISO. Ad esempio, se passo da 100 ISO a 200 ISO dovrò dimezzare il tempo di esposizione o l'apertura del diaframma, "chiudere di uno stop". In fotografia, il termine esposizione indica il tempo durante il quale l'elemento sensibile sensore elettronico, resta esposto alla luce che passa attraverso il sistema ottico l’obbiettivo ed è determinata con l'ausilio dell'esposimetro. L'esposizione è definita come: esposizione = intensità luminosa × tempo e pertanto dipende dalla combinazione tra le impostazioni del diaframma, che regola l'intensità luminosa, e del tempo di esposizione. In particolare, fissata una data esposizione, diaframma e tempo sono inversamente proporzionali, ossia sono l'uno il reciproco dell'altro. La relazione che intercorre tra questi due elementi è definita quindi come reciprocità.
A parità di condizioni di luce, si ottiene la stessa esposizione se aumentando un termine se ne diminuisce un altro dello stesso fattore. Ne consegue che, moltiplicando uno dei tre parametri (diaframma, tempo, sensibilità) per un dato fattore, basterà dividere uno degli altri due per lo stesso fattore per ottenere un'immagine esposta allo stesso modo. ISO 100-f/8-1/30 ISO 100-f/4-1/125 ISO 100-f/11-1/15 ISO 200-f/8-1/60 ISO 200-f/11-1/30 ISO 200-f/4-1/250 Questa caratteristica permette un controllo, voluto sul risultato fotografico. Infatti, l'uso di una o dell'altra terna, pur garantendo la stessa esposizione equivalente, interferisce con altri aspetti quali la profondità di campo, un effetto mosso, ma siamo oltre: ricordiamoci che all'aumentare dell'apertura del diaframma diminuisce la profondità di campo della foto, mentre all'aumentare dei tempi di esposizione aumenta il rischio dell'effetto mosso, e all'aumentare della sensibilità, aumenta la granularità dell'immagine ,per l’effetto della grana o rumore elettronico nel caso del sensore . Fin dall’ origine della fotografia, l'esposizione fu l'elemento fondamentale per ottenere un fotogramma ottimale in ogni singola condizione luminosa. Un tempo era necessario fotografare con esposizioni molto lunghe, poiché il materiale su cui veniva impressa la fotografia era poco sensibile e quindi doveva rimanere per ore alla luce per assumere un aspetto simile alla realtà.
Nella prima fotografia della storia, Joseph Nicéphore Niépce dovette esporre un foglio di carta imbevuto di cloruro d'argento per circa 8 ore prima di ottenere un'immagine abbastanza luminosa e nitida. Con il tempo il materiale fotografico divenne sempre più sensibile, fino ad arrivare alle classiche pellicole dopo i sensori che hanno raggiunto livelli per la pellicola impensabili . Un altro accenno lo rivolgiamo allo strumento che viene utilizzato per misurare la luce che è l'esposimetro, che può essere esterno o interno. Un esposimetro può essere a luce riflessa, misurando così la luce che effettivamente proviene dal soggetto, oppure a luce incidente, che viene posto in prossimità del soggetto e ne misura l'illuminazione. Un esposimetro a luce riflessa ha a disposizione lo stesso tipo di informazione che arriva al sensore, e fornisce così una misura direttamente utilizzabile. Per contro, se il suo angolo (campo) non è molto ristretto, non è possibile determinare se tale illuminazione proviene dal soggetto, oppure è prevalentemente luce ambientale, per esempio il cielo o uno sfondo molto chiaro. Nel caso dell'esposimetro a luce incidente, invece, si ha una misurazione molto più precisa: l'esposimetro si trova esattamente nel punto di interesse. Tuttavia, soggetti diversi rispondono alla stessa illuminazione in modi molto differenti . Naturalmente l'esposimetro interno alle macchine fotografiche può essere solo del tipo a luce riflessa, perché non può essere posizionato in corrispondenza del soggetto. L'esposimetro misura la luce su una scala calibrata in valori di esposizione, già pronti, senza necessità di alcuna conversione, per essere utilizzati nelle formule per il calcolo di diaframma e tempo. Gli attuali esposimetri interni hanno permesso di limitare l'intervento umano utilizzando più sensori all'interno della fotocamera. La misura dell'esposizione può essere, ancora oggi, fatta con modalità esposimetriche tradizionali: misura in un punto centrale (spot) o in un'area centrale (pesata centrale) dell'immagine. Sono però disponibili anche modalità intelligenti, che misurano una matrice di più punti, determinando la natura della scena inquadrata e di conseguenza l'esposizione più appropriata. Le fotocamere elettroniche o digitali utilizzano dei programmi (vari-program) che, una volta calcolata l'esposizione corretta, scelgono la coppia tempo/diaframma più adeguata per la scena inquadrata.
Per convenzione, il calcolo dell'esposizione (il valore letto sull'esposimetro) viene fatto in modo tale che la zona di riferimento, per esempio il centro nella modalità spot, sia reso con un livello luminoso intermedio. Tale valore è quello del grigio 18%, cioè quello di una superficie con riflettenza pari al 18%. Esistono in commercio appositi cartoncini che presentano tale livello convenzionale di riferimento. Il valore esposimetrico misurato, per questo motivo, è da intendersi come un punto di partenza su cui effettuare le proprie scelte, più che come una prescrizione.
A queste considerazioni fanno eccezione i metodi a matrice o multizona, che applicano criteri basati sull'analisi di casi reali per cercare di determinare l'esposizione più corretta. Ma qual’è il motivo per il quale la scala del rapporto focale usa come misura dei numeri che a prima vista potrebbero sembrare “strani”. Si tratta della serie di potenze di radice quadrata di 2 . Se si utilizza una fotocamera dotata delle modalità manuali (P/A/S/M) noteremo che i numeri come f/5,6 o f/8. Variano al variare dell’inquadratura. Abbiamo preso in considerazione il caso di obiettivi a focale fissa, 50 mm f 1,4 ma le indicazioni stampate sugli zoom ci forniscono altri numeri come 18-35mm f/3,5-4,5 e ci informano che l’apertura massima con l’obiettivo a 18mm è f/3,5, cioè 5,1mm, mentre a 35mm arriva a f/4,5 e quindi 7,7mm. L’apertura massima nel secondo caso è lievemente più grande, ma il rapporto focale sembra più piccolo proprio per via della lunghezza focale, lo notiamo se guardiamo l’obiettivo della macchina al variare del rapporto della focale, a focali maggiori lenti frontali maggiori. In fotografia il numero f di stop indica l'apertura del diaframma, ed e' espresso come frazione: f/1, f/1.4, f/2, f/2.8, f/4, f/5.6 etc... Di conseguenza avanzando con gli stop il diametro del diaframma diminuisce sempre di più, pertanto un obiettivo con f/2.8 farà passare più luce (sarà quindi più luminoso) di un f/8. Ma quanto varia effettivamente la luce in ingresso in funzione del numero di stop? Lo vediamo subito, i calcoli sono abbastanza semplici, se siete curiosi. Diaframma a 8 lame su un obiettivo da 50mm Cominciamo con il dire che il diaframma è formato da una serie di lame che si aprono o si chiudono a seconda del numero di stop che impostiamo, la sua forma pertanto sarà ottagonale, possiamo approssimarla tranquillamente ad un cerchio e tanto più si avvicina meglio è. Sappiamo che l'area di un cerchio è pari a: Area Cerchio = ? * r^2 E dalle equazioni dell'ottica sappiamo che: f/ - N = f / D il Numero di stop è uguale alla lunghezza focale fratto il Diametro del diaframma. A questo punto non abbiamo bisogno d'altro per calcolare quanta luce entra sul sensore al variare del numero di stop, quindi procediamo con i nostri conti e otteniamo il raggio del diaframma dall'ultima formula: N = f / D -> D = f / N, essendo D il diametro, sappiamo che r = f / 2N Sostituiamo questa espressione a quella dell'area del cerchio ed otteniamo: Area Cerchio = ? * (f / 2N)^2 Calcoliamo ora qual'e' la sequenza che c'e' dietro al numero di stop, per farlo sarà sufficiente dividere un numero di f per il suo precedente: 1.4 / 1 -> 1.4 2 / 1.4 -> 1.42 4 / 2.8 -> 1.42 5.6 / 4 -> 1.4 8 / 5.6 -> 1.42 Facciamo una media dei valori ottenuti ed abbiamo: 1.41 che altro non e' che la radice di 2: 2^0.5, perciò possiamo dire che la progressione degli stop varia di un fattore prossimo alla sequenza geometrica delle potenze di due: 2^0.5, 2^(2*0.5), 2^(3*0.5), perciò:N/(N-1) ~= 2^0.5 dove N+1 e' uguale a 2^(x+1*0.5) L'ultima espressione significa solo che N non varia come i numeri naturali: 1, 2, 3 etc... Ma varia secondo la sequenza geometrica vista poco sopra: 2^0.5, 2^(2*0.5), 2^(3*0.5)... Quindi riutilizzando la formula dell'area possiamo sapere esattamente quanta sia la variazione di luce che entra tra uno stop ed il successivo, facciamolo numericamente e calcoliamo su un obiettivo da 50mm l'area del diaframma quando e' rispettivamente a f/2.8, f/4 e f/5.6, il risultato sarà uguale: Area(f/2.8) = ? * (50/2*2.8)^2 = 250 mmq Area(f/4) = ? * (50/2*4)^2 = 123 mmq Area(f/5.6) = ? * (50/2*5.6)^2 = 63 mmq Il diaframma in fotografia, è un'apertura solitamente tendente al circolare normalmente poligonale, incorporata nel barilotto dell'obiettivo, che ha il compito di controllare la quantità di luce che raggiunge i sensori di una fotocamera per il tempo in cui l'otturatore resta aperto il tempo di esposizione. Il centro del diaframma coincide con l'asse ottico della lente. Insieme al tempo di esposizione, l'apertura del diaframma determina la quantità di luce che viene fatta transitare attraverso l'obiettivo, che va quindi a impressionare i sensori. La maggior parte delle fotocamere dispone di un diaframma di ampiezza regolabile (simile, per funzione, all'iride dell'occhio) contenuto nell'obiettivo; la regolazione del diaframma si chiama apertura. A piena apertura il diaframma lascia passare, in un dato tempo, quanta più luce possibile verso il supporto sensibile; chiudendo il diaframma si riduce tale quantità di luce.
Nelle fotocamere, il diaframma può essere regolato su diverse aperture, distribuite regolarmente su una scala di intervalli detti numeri f (f/numero) o f/stop o aperture diaframma o divisioni di diaframma o più semplicemente diaframmi. La sequenza dei valori di numeri f è una progressione geometrica di ragione (circa 1,4) standardizzata al congresso di Liegi nel 1905, che comprende i seguenti valori: f/1 f/1,4 f/2 f/2,8 f/4 f/5,6 f/8 f/11 f/16 f/22 f/32 f/45 f/64 L'intervallo tra i diversi valori del diaframma viene comunemente indicato in gergo stop. I numeri f sono calcolati e ordinati in modo tale che diaframmando, cioè chiudendo il diaframma di un'intera divisione o di 1 stop, si dimezza la quantità di luce che entra per impressionare i sensori; chiudendolo di 2 stop si diminuisce la luce a 1/4, chiudendolo di 3 divisioni a 1/8 e così via. I numeri f esprimono il rapporto focale, cioè il rapporto tra la lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro dell'apertura del diaframma. Pertanto a valori più bassi di f corrispondono aperture di diaframma più ampie. Ad esempio, con un obiettivo di 50 mm, un'apertura del diaframma di 25 mm corrisponde a f/2 mentre un'apertura di 3,125 mm a f/16. In questo senso f è chiamato anche "apertura relativa", nel senso che il valore f dell'apertura è normalizzato rispetto alla lunghezza focale, ed esprime l'intensità di luce lasciata passare dal diaframma, utile ai fini del calcolo dell'esposizione. Infatti la stessa apertura relativa per esempio f/4 corrisponde a due aperture assolute diverse in un obiettivo di lunghezza focale 50mm (apertura assoluta a f/4 = 50/4=12,5 mm) e in un teleobiettivo 300mm (apertura assoluta a f/4 = 300/4=75 mm); però corrisponde alla stessa intensità di luce che l'obiettivo lascia passare verso il sensore. A parità degli altri parametri (obiettivo, formato, ecc) la profondità di campo è fortemente influenzata dall'apertura del diaframma: se questo è completamente aperto essa assume il minimo valore, viceversa diminuendo l'apertura (l'operazione è detta diaframmare) si aumenta la profondità di campo, che raggiunge il massimo quando il diaframma è portato all'apertura minima.
Diaframmi più chiusi hanno anche l'effetto di ridurre gli effetti di aberrazione ottica. Diaframmi molto chiusi provocano un peggioramento dell'immagine, dovuto alla diffrazione dei raggi luminosi per opera dei bordi del diaframma. Questi raggi diffratti dai bordi sono sempre presenti, ma il loro effetto sulla qualità dell'immagine diventa rilevante solo a diaframma chiuso. In fotografia, i primi diaframmi introducevano delle deformazioni nell'immagine dette a barilotto o a cuscinetto. I diaframmi altro non erano che tappi forati al centro, posti davanti oppure dietro all'ottica.
Oggi quello utilizzato è quello detto «a iride»: è formato da un numero variabile di lamelle , da 4 in su fino a 9, sagomate in maniera opportuna. Le lamelle sono imperniate in una ghiera rotante azionabile dall'esterno che, scorrendo, fanno variare in maniera continua la dimensione del foro. La sagoma del foro è dovuta alla forma delle lamelle e si avvicina al cerchio quanto più il loro numero è alto.
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